Sommario
L´arte visuale, con figure rappresentative o pittogrammi, e segni o ideogrammi, volutamente combinati in associazioni, è un fenomeno che, per quanto ne sappiamo oggi, si manifesta circa 40.000 anni fa. Il grafismo implica la presenza di capacità analitiche, associative e di astrazione che sembrano essere già presenti, almeno in parte, nell´uomo di Neanderthal; ma il problema degli antecedenti è ancora tutto aperto. Malgrado diversi tentativi ed asserzioni in tal senso, per il momento, a parere dello scrivente, non si conoscono reperti che si possano definire come arte e che siano databili con certezza al Paleolitico Medio o Inferiore. Con l´avvento dell´Homo sapiens che produce arte si rileva nella specie la presenza di alcuni attributi che oggi consideriamo essenziali per l´essere ´uomo´.
Summary
Visual art, with its representative figures or pictograms and signs or ideograms, voluntarily combined in groups, is a phenomenon that as far as we know originated about 40,000 years ago. Graphical ability involves the presence of analithic capacities, association and abstraction which already seem to appear in Neanderthal men while the question of what happened previously is still open. Although various attempts and reports have been made on the subject, according to the author for the moment there are no findings which can be defined as art dating back to the Middle or Lower Palaeolithic periods. With the arrival of the Homo Sapiens and his ability to produce art forms, the presence of some traits that today are considered essentially ´human´ is revealed.[nggallery id=33]Le prime espressioni intellettuali dell’uomo ci riportano alla notte dei tempi. La riscoperta delle nostre radici pone profondi quesiti sull’identità stessa della nostra specie. In alcuni siti preistorici è stato notato che gli ominidi, già nel Paleolitico inferiore, usavano raccogliere, trasportare e conservare pietre ed ossa animali dalla forma o dai colori particolari. Non è facile sapere fino a che punto tale attitudine al collezionismo implichi determinate facoltà intellettuali. A tal fine sarebbe utile capire i moventi e le finalità in questo comportamento.
Cosa può significare, in termini di concettualità, la simmetria che i cacciatori delI’Acheuliano già 500.000 anni fa davano alle proprie amigdale? Sono, questi, strumenti appuntiti con ritocco bifacciale, dove una lama sinuosa si forma sul perimetro all’incontro delle due facce. Secondo il nostro modo di vedere del 20° secolo, alcuni di questi artefatti sono esteticamente assai eleganti. Non si è ancora stabilito se quella che oggi consideriamo forma slanciata ed elegante fosse dettata da esigenze di funzionalità o se invece avesse avuto anche motivazioni di carattere estetico. Alcuni studiosi hanno portato la forma dell´amigdala a riprova delle facoltà intellettuali dei suoi creatori. Certo, tali facoltà sarebbero di livello ben più elevato se, oltre a ricercare obiettivi di funzionalità, la simmetria dimostrasse esigenze estetiche. La cosa non è impossibile, ma resta ancora da provare.
Si è tentato di attribuire ad epoche assai remote segni incisi su pietre ed osso, provenienti da siti europei, soprattutto da parte di alcuni studiosi, François Bordes (1969), Piero Leonardi (1975) e, più recentemente, R.G. Bednarik (1995). Si conoscono del Paleolitico inferiore alcuni frammenti incisi di tacche e segni che, se intenzionali e motivati da fattori cognitivi, testimonierebbero la presenza di tentativi, non necessariamente grafici o estetici, ma di esecuzione di segni, forse di valore numerico, per cui già indicherebbero la presenza di simbolismo e concettualità. Alcuni gruppi di linee incise su osso e pietra, da Bilzingsleben in Germania, suggeriscono una specie di ‘gioco’ provocato dalla scoperta che una punta poteva incidere dei segni (D. Mania & U. Mania, Deliberate engravings on bone artefacts of Homo erectus, 1988).
Si è parlato anche di una presunta ‘statuetta femminile’ acheuliana in Israele, che purtroppo è molto probabilmente un 1udum naturae (cfr. N. Goren-Inbar, 1986). Si è parlato anche di arte rupestre acheuliana in India, datata ad oltre 300.000 anni, e di altri simili scoop di dubbia attendibilità.
Nel periodo della cultura Musteriana, che la letteratura professionale denomina Paleolitico medio, si conoscono alcuni sporadici reperti con segni di strofinatura o di utilizzo, coperti da striature e da altre incisioni non figurative, e in qualche caso, da tacche o linee parallele, sia in Europa, sia nel Vicino Oriente.
Tuttavia le datazioni e le argomentazioni riguardo questi reperti non sempre permettono di dare loro un collocamento preciso. Per il momento, l’unica istoriazione di proporzioni consistenti che sia stata attribuita al Paleolitico medio è un gruppo di coppelle su una tavola di pietra a La Ferrassie, in Dordogna, ma anche la datazione di questa suscita qualche dubbio.
L’uomo di Neanderthal ha lasciato, nei suoi livelli abitativi, sporadici frammenti ossei con incisioni di segni, parte dei quali sono tracce di lavorazione, tentativi di taglio con l’ausilio di una selce, ma altri sono graficamente intenzionali, come ad esempio un’incisione a zigzag da Bacho-Kiro in Bulgaria; alcuni forse hanno un valore numerico. Sulla lastra di copertura della già menzionata tomba a La Ferrassie vi sono incise delle coppelle, incavi a forma di coppe a cui i ricercatori hanno dato interpretazioni diverse.
Per taluni esse avrebbero avuto finalità funzionali, per altri, sarebbero un primordiale tentativo figurativo, e sono state emesse ipotesi discordanti su cosa si volesse rappresentare.
Nell’area siro-palestinese, a Quneitra nelle alture del Golan, è venuto alla luce un frammento di selce sulla cui corteccia sono incise linee parallele e semicerchi concentrici in uno strato di cultura musteriana datato con il metodo ESR (Electron Spin Resonance) a circa 54.000 anni (A. Marshack, A middle paleolithic symbolic composition from the Golan heights,1996). Frammenti di materie coloranti naturali, quali ocra rossa od ossido di manganese, sono sovente stati ritrovati negli strati musteriani: alcuni di questi avevano tracce di utilizzazione, affilature sulla punta, segni di strofinamento; certamente furono usati per colorare qualcosa, che si presume essersi trattato del corpo umano e forse delle pelli e delle fibre che l’uomo usava per farne indumenti e per fabbricare oggetti. Dal momento che purtroppo le materie organiche non si sono conservate, dobbiamo limitarci alle deduzioni. In ogni caso è certo che le rnaterie coloranti servivano a colorare qualcosa, indice evidente di una ricerca estetica o simbolica che, già di per sé, costituisce un fatto intellettuale.
Si può affermare dunque che l’uomo di Neanderthal ha lasciato qualche frammento osseo con delle tacchette incise. Si può parlare anche di uso di coloranti, ma non si hanno per ora elementi sufficienti per parlare di linguaggio visuale e quindi di arte visuale.
In Africa, in particolare in Tanzania e Namibia, si sono trovate materie coloranti con segni di utilizzo in strati archeologici all’interno di grotte con arte rupestre, in molti livelli che coprono gli ultimi 50.000 anni. Anche qui non è possibile dire per il momento cosa precisamente venisse colorato e quando l’uomo abbia iniziato a produrre arte.
Mentre l’uomo di Neanderthal viveva in Europa e nel Vicino Oriente, tra 100.000 e 35.000 anni or sono, producendo un’industria litica su scheggia di tipo musteriano, in Africa Orientale e nello stesso Vicino Oriente vivevano uomini già molto simili, fisicamente, all’Homo sapiens che giunse in Europa all’inizio del Paleolitico Superiore. In Tanzania oltre 50.000 anni fa essi avevano industrie litiche comprendenti utensili ‘su lama’ assai specializzati e diversificati: Iame, punte, bulini, grattatoi e microliti dei tipi che in Europa e nel Vicino Oriente entravano in uso circa 35.000 anni fa, appunto con l’inizio dei Paleolitico Superiore.
L’uomo di Neanderthal è classificato da alcuni studiosi come Homo sapiens neanderthalensis. Noi ci riferiamo ad esso come Neandertaliano, riservando il termine di Sapiens agli individui del tipo che in Europa sono arrivati con il Paleolitico Superiore. Nella nostra terminologia abbiamo eliminato anche il ridondante secondo ‘sapiens’ dal termine Homo sapiens sapiens.
Il termine Homo sapiens è usato in modi diversi da ricercatori diversi. Per taluni si tratta semplicemente d’individui il cui apparato scheletrico ha caratteristiche somatiche moderne. Tali caratteristiche sono presenti, in alcuni individui, da più di 100.000 anni, mentre caratteristiche scheletriche arcaiche ancora oggi persistono presso sporadici individui. Per altri il termine sapiens ha un significato che riguarda le caratteristiche cerebrali dell’individuo e, in particolare, le capacità di sintesi, di astrazione e di associazione d’idee rivelate dalla produzione dell’arte visuale, e dalla produzione di complessi insiemi di manufatti altamente specializzati, dalle fonne puntualmente diversificate.
Tali espressioni di ‘sapienza’ appaiono, in Europa, nel Vicino Oriente e nel bacino mediterraneo, con l’avvento dei Paleolitico Superiore.
L’arte visuale, con figure rappresentative o pittogrammi, e segni o ideogrammi, volutamente combinati in associazioni, è un fenomeno che, per quanto ne sappiamo oggi, si manifesta circa 40.000 anni fa. Il grafismo implica la presenza di capacità analitiche, associative e di astrazione che sembrano essere già presenti, almeno in parte, nell’uomo di Neanderthal; ma il problema degli antecedenti è ancora tutto aperto. Malgrado diversi tentativi ed asserzioni in tal senso, per il momento, a parere dello scrivente, non si conoscono reperti che si possano definire come arte e che siano databili con certezza al Paleolitico Medio o Inferiore.
Con l’avvento dell’Homo sapiens che produce arte si rileva nella specie la presenza di alcuni attributi che oggi consideriamo essenziali per l’essere ‘uomo’. Questo essere, comunque, mostrava di avere ormai acquisito molte delle caratteristiche che noi chiamiamo ‘umane’, e tra l’altro possedeva già molte delle capacità di comunicare e di programmare le proprie azioni, che abbiamo conosciuto da allora ad oggi.
2. Primi albori
Quanto alle capacità di concettualizzare, si possono fare alcune considerazioni generali. La creatività e l’immaginazione conducono di pari passo sia verso il razionale, sia verso l’irrazionale. La scoperta di sé stessi e della relazione tra l’io e ciò che lo circonda, ha sempre stimolato la ricerche di fattori ‘soprannaturali’; certamente essi hanno avuto un ruolo importante nel periodo formativo dell’uomo. Ogni acquisizione, ogni situazione nuova, ogni problema irrisolto, può avere costituito motivo di attribuzione sacrale.
Oltre al ritrovamento di sepolture con elementi che rivelano il cerimoniale funerario e che costituiscono una fonte fondamentale d’informazione per ciò che riguarda l’ideologia, si hanno altri aspetti che potrebbero essere interpretati come espressioni di concettualità. Innumerevoli ritrovamenti archeologici sono stati interpretati come attinenti al comportamento religioso, ma raramente forniscono prove che giustifichino tale attribuzione. Allo stato attuale delle ricerche, vi sono migliaia di dati dei quali a vari livelli sono state date interpretazioni religiose, ma nella grande maggioranza non costituiscono fattori determinanti o sufficientemente attendibili.
Come si è elaborato in altre pubblicazioni (E. Anati: Le radici dell cuItura, 1992; La religione delle origini, 1995), diversi ritrovamenti sembrano tuttavia indicare atteggiamenti specificamente rituali che sono definiti come il culto delle ossa, il culto degli animali aggressivi quali l’orso e il lupo, il culto degli oggetti, riti di passaggio e riti propiziatori. I pochi ritrovamenti attendibili hanno portato alla produzione di una ingente letteratura ed hanno stimolato l’intelletto e l’immaginazione dei ricercatori e dei compilatori.
La più antica documentazione sicura che implichi una credenza dell’uomo nel soprannaturale è connessa con uno dei fenomeni che non ha cessato, da allora, di stimolare il pensiero umano, con una realtà che incombe su tutti noi: quella che alla fine della vita ci si confronta con la morte; ed è contestualmente connessa con l’esigenza dell’uomo di spiegare a sé stesso, non solo in cosa consista la morte e cosa vi sia dopo la morte, ma anche che cosa sia la vita. E’ una domanda tremenda che l’uomo si pone da sempre, che ha stimolato speculazioni, generato religioni, filosofie e discipline scientifiche, e che non trova ancora una risposta esauriente.
L’atteggiamento rituale verso il morto non sembra discendere direttamente da una logica razionale, basata sui tre istinti fondamentali della ricerca del cibo, dell’autodifesa e della riproduzione della specie. Ma irrazionalmente è forse connesso a tutti e tre questi fattori. Il morto era sepolto in aree sepolcrali e con una prassi costante, comune a diverse località dell’area euro-asiatica della cultura musteriana. Ciò mostra l’esistenza di una tradizione diffusa e uniforme: nel Vicino Oriente, nella grotta Skhul del Monte Carmelo, in Asia Centrale a Teshik-Tash, in Europa a Le Moustier e a La Chapelle-aux-Saints in Francia, si hanno palesi analogie riguardo al trattamento che i vivi riservavano ai morti.
Nel Paleolitico Medio già si riscontrano i primi casi di ‘grave goods’ o corredi funerari. A Le Moustier, in una tomba che risveglia parecchi interrogativi, lo scopritore, Denis Peyrony, ha trovato delle osse animali ancora in posizione di articolazione, se pure da una parte e dall’altra erano state tagliate. Lo studioso ha così potuto dedurre che nella tomba, accanto al defunto, era stato deposto un pezzo di carne.
Ma forse il luogo di sepoltura più interessante che si conosca in Europa per il Paleolitico Medio è La Ferrassie. Vi sono diverse sepolture e anche lì fu deposto del cibo accanto al morto. Le ossa animali sono quanto resta della carne offerta.
Il neandertaliano mostrava un comportamento singolare: l’atto di seppellire implica la presa di coscienza del fatto che il defunto non era più vivo, che la sua vita era giunta al termine.
Eppure gli deponeva accanto del cibo perché avesse accanto qualcosa da mangiare. Quindi il morto non era completamente ‘morto’? Il cibo che gli procurava e che seppelliva accanto a lui, doveva servirgli per il pasto che avrebbe consumato prima di giungere a destinazione? In tale semplice atto vi è forse il simbolo della convinzione di una esistenza oltre la tomba. La speranza di una vita nell’aldilà da allora non ha cessato di motivare il comportamento dei viventi. Comunque, l’atteggiamento rituale verso il defunto indica la credenza che l’essere esanime continuasse a possedere forze vitali e che meritasse cura e considerazione. Se vi era ancora in esso qualche energia presente, questa poteva essere usata per il bene e per il male. Sicuramente, anche fattori affettivi spingevano il vivente ad aver cura dei propri morti.
Come vedremo più avanti, nel Paleolitico Superiore l’arte ci rivela un atteggiamento simile anche verso gli animali. E’ ipotizzabile che i sogni ed altri fenomeni del subconscio contribuivano alle formulazioni di una ideologia che determinò le basi della concettualità.
L’uomo del Paleolitico Medio che viveva in Eurasia, aveva una ideologia precisa rispetto alla vita d’oltre tomba; probabilmente essa includeva la credenza in un passaggio o in un viaggio da questa a un’altra vita. Ciò implicherebbe anche la credenza in un mondo soprannaturale, o meglio extraterreno. In altre parole, possiamo forse affermare che questi esseri credevano nella sopravvivenza dell”anima’ al corpo. I morti transitavano da un mondo all’altro, portando con sé la memoria delle relazioni, buone e cattive, intrattenute con i vivi che, a loro volta, sarebbero un giorno arrivati alla stessa destinazione.
Tali speculazioni sull’irrazionale si sviluppano nello stesso periodo in cui si manifestano indicazioni della presenza di un pensiero ‘razionale’. Oltre che dall’arte, dal comportamento nei riguardi dei defunti, dalla presenza di oggetti di probabile uso rituale, tale complessità del pensiero umano ci è rivelata dall’apparire di una nuova tecnologia nella produzione degli utensili litici di uso quotidiano e della loro tipologia, che diventa assai più complessa e articolata ed implica l’uso razionale della materia prima e la programmazione nella fabbricazione di manufatti.
Vi sono anche altri dati che indicano la presenza di una concettualità articolata e complessa, già prima dell’avvento dell’Homo sapiens (E. Anati, La religione delle origini, 1995).
Certo è legittimo parlare di antecedenti, della presenza di una concettualità primordiale, già prima dell’apparizione dell’Homo sapiens nel Paleolitico Medio. Vi sarebbero testimonianze che l’uomo professasse il cannibalismo rituale, il culto dei crani e il culto degli animali. I dati disponibili possono essere interpretati in diverse maniere e, pur essendovi indicazioni di atteggiamenti rituali, non sempre è chiaro fino a che punto si possa parlare di comportamento religioso. Ma si può sicuramente parlare di concettualità almeno fin dall’inizio del Paleolitico medio, ossia per gli ultimi 100.000 anni. In particolare, per quanto riguarda l’atteggiamento nei riguardi dei defunti, possiamo affermare anche che esistono concetti concernenti la visione di una vita extra-terrena, la credenza nella sopravvivenza dopo la morte e valutazioni di carattere intellettuale nei riguardi dell’esistenza.
Nell’area siro-palestinese, nelle fasi di transizione tra il Paleolitico Medio e il Paleolitico Superiore, si conosce anche il più antico santuario, dove l’uomo dimostra un particolare interesse nell’interpretare la natura e dove tale interesse diventa arte o piuttosto ‘proto-arte’. E i protagonisti molto probabilmente sono già dei sapiens a pieno titolo.
I dati concernenti l’intellettualità prima dell’apparizione dell’Homo sapiens provengono, per la massima parte, dall’area dove maggiormente si sono effettuate ricerche, ossia dall’Europa e dall’area siro-palestinese. Molto meno si sa sugli altri due continenti dove ominidi precedenti hanno lasciato tracce. L’ Africa e l’Asia sono pressoché sconosciute sotto questo aspetto e indubbiamente ci riservano non poche sorprese nel futuro. Quanto all’America e all’Oceania, malgrado alcune asserzioni contrarie, e periodici annunci di ‘scoperte’ rivoluzionarie, non si conoscono per ora elementi attendibili che dimostrino la presenza dell’uomo prima della grande espansione dell’Homo sapiens. La cosa non sarebbe impossibile, ma finora non è provata, anche se ciò possa dispiacere a qualche collega.
Le più antiche documentazioni chiare riguardanti la concettualità, quindi, per il momento vengono dall’Europa e dal Vicino Oriente, sono attinenti al culto dei morti; esse rivelano la preoccupazione dell’uomo per la sua mortalità e cercano indizi di una vita dell’oltre tomba. Non si può per ora parlare di questi fenomeni in termini di religione strutturata, ma vi erano sicuramente credenze, concetti e anche regole da seguire, riti consuetudinari riguardanti le modalità della sepoltura e la scelta del luogo. Gli artefici erano rappresentanti della stirpe dell’uomo di Neanderthal, una stirpe che pare si sia completamente e misteriosamente estinta con l’arrivo dell’Homo sapiens.
Il santuario già menzionato, noto come sito HK86B di Har Karkom, nel deserto israeliano del Negev, mostra, a livello embrionale, diversi dei fattori concettuali che riscopriremo più tardi nell’arte parietale paleolitica.
I primi indizi di strutturazione del concetto religioso, con canoni precisi, sembrano essere evidenziati dal fenomeno di creatività artistica dell’uomo del Paleolitico superiore. Nelle grotte-santuario, nel ventre della terra, già oltre 30.000 anni or sono l’Homo sapiens creava oggetti per usi rituali, produceva meravigliose opere d’arte ispirate al mito e ad altri aspetti della concettualità, praticava riti connessi con le proprie credenze. L’arte parietale e quella mobiliare, i ritrovamento venuti alla luce in questi ‘santuari’, ci rivelano l’esistenza di credenze già molto più complesse ed evolute di quelle che conosciamo del Paleolitico Medio, esse ci mostrano anche la presenza di pratiche abituali e diffuse, e di luoghi riservati ad attività di carattere intellettuale, come la creatività artistica ed il culto.
3. Concettualità dell’Homo Sapiens
La visione darwiniana secondo la quale l’arte e la concettualità si sarebbero evolute per gradi, dal pitecantropo in poi, è messa in crisi dai recenti sviluppi della ricerca. L’evoluzione concettuale e quella tecnologica sono viste oggi come una serie di gradini. Ognuno di questi grandi salti è effetto di una combinazione di cause, ma soprattutto è effetto di nuove capacità mentali.
La specie umana esiste sulla terra da oltre quattro milioni di anni. Nel corso della sua esistenza, si sono sviluppate le capacità dell’uomo di esprimersi e di operare in diversi modi. Talvolta la produzione di un nuovo strumento è causa ed effetto di nuove capacità mentali; talvolta mutamenti del clima e delle risorse hanno imposto l’adattamento del comportamento. Con l’apparizione dell’Homo sapiens è avvenuta una rivoluzione nel meccanismo della logica, nel modo di pensare, nella capacità di astrazione e sintesi, rivoluzione che non ha paralleli, per quanto c’è dato sapere, né nelle precedenti tappe dell’uomo, né in alcun’altra specie animale.
Malgrado la persistenza di ipotesi darwiniane in taluni ambienti, e di tentativi ad attribuire date antichissime a ritrovamento di arte visuale, l’analisi comparata indica con sempre maggiore chiarezza una connessione tra la nascita dell’Homo sapiens e la nascita dell’arte.
Una serie di dati, che approfondiremo più avanti, sembra proporre una soluzione della controversia tra evoluzionisti di tendenze diverse in merito al meccanismo di origine della specie. L’ipotesi darwiniana secondo la quale l’Homo sapiens sarebbe il risultato di una linea evolutiva che ha avuto manifestazioni parallele in varie parti del globo appare in contraddizione con alcune caratteristiche universali dell’umanità ‘sapiens’, che la indicherebbero invece come prodotto di una serie di coincidenze difficilmente ripetibili.
Le stesse coincidenze, di cui parleremo in seguito, sembrano indicare che questo nuovo uomo abbia avuto un’origine unica, ossia che sia nato in un luogo ben determinato, probabilmente in conseguenza di un connubio particolare, o di qualche altro possibile fattore che abbia condotto a ben precise micromutazioni genetiche. A partire da tale luogo di nascita, che si presume in Africa, egli si sarebbe poi moltiplicato ed i suoi discendenti avrebbero raggiunto gli altri continenti. Recenti ritrovamenti sembrano anche indicare che, mentre in Europa e nel Vicino Oriente viveva il Neandertaliano, nell’Africa orientale ed australe si sviluppassero individui già molto simili all’Homo scipiens che giunse in Europa nel Paleolitico Superiore, in quanto a capacità mentali e metodologia nella creazione e nell’uso dei propri utensili.
L’ipotesi del connubio di un ‘padre’ e una ‘madre’ primordiali che avrebbero messo al mondo la nostra specie ci riporta alla memoria collettiva del mito, all’epos di Adamo ed Eva, magnifica allegoria del mito di origine. Due individui, o piuttosto due gruppi d’individui, sarebbero i capostipiti dell’Homo sapiens: un nuovo tipo di uomo, con una capacità di accumulazione d’informazioni molto superiore ai suoi predecessori, con un periodo d’infanzia più prolungato, con un particolare insieme di dati somatici, ma soprattutto, con capacità cerebrali molto particolari che gli hanno dato nuova dimensione emotiva e nuova disposizione intellettuale. Meccanismi mentali di associazioni, simbolizzazioni, astrazioni e sublimazioni, che ancor oggi costituiscono una delle caratteristiche universali dell’Hoíno sapiens.
L’uomo è diventato anche artista; e forse quella di produrre arte non è solo una capacità, ma piuttosto una esigenza della natura stessa dell’uomo. Da quel momento in poi l’uomo acquisisce una determinata dimensione visuale, concettuale e comunicativa, che rientra nel quadro di un nuovo tipo di reazione al mondo circostante e di relazione con esso. Senza queste qualità non esisterebbero le relazioni umane che ci caratterizzano, relazioni emotive ed affettive profonde, il tipo di comunicazione che ci permette di dialogare e filosofare con il prossimo e di avvicinarsi ad esso con intensità e coscienza, ed il tipo di quesiti che la nostra mente si pone, senza il quale non potrebbe esservi un pensiero intellettuale.
Fin quando l’arte preistorica era studiata e vista nei vari continenti come una serie di fenomeni locali e isolati, ad ogni più antica manifestazione locale scoperta si attribuiva volentieri il primato mondiale. Gli europei ritenevano che l’arte fosse nata in Europa all’inizio del Paleolitico Superiore, i colleghi indiani pensavano che l’arte fosse nata in India pressappoco alla stessa epoca, e lo stesso può dirsi degli studiosi russi, che avevano trovato attorno al lago Baikal, in Siberia, il nucleo primario e a parere di taluni il più antico tra tutte le espressioni artistiche. Inoltre, le scoperte di W. E. Wendt in Namibia avevano fornito datazioni attendibili molto antiche, per cui alcuni studiosi già negli anni ’70, avevano espresso l’ipotesi che l’arte potesse essere nata in Africa suscitando non poche polemiche. A questo agonismo si sono aggiunti recentemente gli australiani che rivendicano il primato delle più antiche datazioni.
In Namibia gli scavi di W.E. Wendt nella grotta Apollo 11 hanno riportato alla luce diverse tavolette in pietra con pitture di animali, alcune delle quali policrome in un livello archeologico che tre esami al Carbonio 14 hanno riconosciuto antico rispettivamente circa 28.400, 26.700 e 26.300 anni (W.E. Wendt, 1976). Le date C. 14, come mostrato dalla dendrocronologia, tendono a ringiovanire e vanno calibrate. Per ottenere la loro età reale, le date al C. 14 andrebbero maggiorate del 15% al 20%. Il fatto è che sono opere anche policrome, raffinate e molto evolute che sicuramente implicano già una lunga tradizione alle spalle. E’ sorprendente notare la similitudine stilistica e tematica delle pitture, con talune creazioni artistiche, in Europa e in altri continenti.
Ma in Europa, le figure policrome dello stesso tipo sono maddaleniane e risalgono a circa 10.000- 15.000 anni più tardi. Per ora non si sono identificati gli elementi più antichi, ma pitture rupestri, dello stesso stile delle placchette di Wendt, si trovano sulle pareti di grotticelle sovrapposte in stratigrqfia a figure più antiche.
In Tanzania si è rilevata una serie di pitture rupestri molto arcaiche, una delle cui fasi più recenti corrisponde, come stile, a quello delle placchette di Apollo 11. La data d’inizio della serie di Tanzania non è nota ma, ai piedi di una parete dipinta in una grotticella, si sono trovati resti di sostanze coloranti con segni di utilizzazione, in livelli archeologici datati con il metodo del C. 14 ad oltre 40.000 anni (E. Anati, BCSP, vol. 23, 1986, p. 15). L’Africa australe sicuramente riserva molte altre sorprese. Ricerche sistematiche sulle sequenze stratigrafiche di pitture rupestri note da tempo, già da sole porterebbero un contributo notevole alla conoscenza delle fasi di evoluzione della più lunga sequenza di arte rupestre che si conosca.
Nel Nord Africa le opere d’arte più antiche attualmente datate si trovano nell’Acacus in Libia e risalgono alla fine del Pleistocene, secondo Fabrizio Mori, a circa 12.000 anni or sono (F. Mori, Valcamonica Symposium ’68, 1970, p. 345). Si tratta di arte rupestre tipica dei cacciatori arcaici evoluti, eseguita in uno stile diffuso nell’area sahariana anche nel Tassili-n-Agger in Algeria e nell’Ennedi Tehadiano.
In Europa i primi segni grafici, fatti risalire a circa 34.000 anni fa, si collocano come epoca, all’inizio del Paleolitico Superiore, ossia corrispondono alla più antica presenza dell’Homo sapiens nel continente. Ma le meravigliose pitture policrome delle grotte di Lascaux ed Altamira note a tutti, si sviluppano nel periodo Maddaleniano a partire da circa 16. 000 anni fa.
Per quanto riguarda l’Asia, le più antiche opere d’arte mobiliare che si hanno per ora sono alcune statuette femminili che sono state trovate presso le sponde del lago Baikal, in Siberia, e che risalirebbero a circa 34.000 anni (datazioni C. 14 non calibrate) (Abramova, BCSP, vol. 25-26, 1990, p. 81). In India un livello con frammenti di gusci di uova di struzzo decorate, in una grotticella con arte rupestre, risale a circa 25.000 anni (C. 14) (E. Anati, BCSP, vol. 221, 1984, p. 13). La notizia che alcune incisioni rupestri sarebbero state trovate sotto strati archeologici vecchi di 200.000 anni non appare attendibile.
Nel Vicino Oriente, le opere più antiche note sono probabilmente delle incisioni rupestri a tratti fini, in Arabia centrale, che rappresentano ideogrammi, figure animali, antropomorfi, in particolare femminili, ritrovate presso i pozzi di Dahathami ed in altre località limitrofe. Sono riconoscibili in stratigrafia tre fasi d’incisioni di cacciatori arcaici, che probabilmente illustrano il perdurare di una lunga tradizione iconografica nel tardo Pleistocene e fino all’inizio dell’Olocene. Mancano per il momento datazioni precise (E. Anati, Rock Art of Central Arabia, vols. 3,4, 1972, 1974).
In Australia, recenti ricerche vorrebbero datare alcune incisioni rupestri ad oltre 40.000 anni. I metodi usati suscitano qualche perplessità e prima di accettare tali datazioni occorrono ulteriori verifiche. I dati acquisiti riguardano datazioni più tarde. Nella grotta Koonalda, vicino ad Adelaide ed in altre località, le incisioni rupestri più antiche risalgono a circa 22.000 anni C. 14 (R.G. Bednarik, BCSP, vol. 22, 1985, p. 83); ma si tratta di segni, almeno apparentemente, non figurativi. Le più antiche date confermate, per opere d’arte figurativa in Australia, provengono da Laura, nella penisola di York. Sono su una parete che era coperta da strati archeologici, dai quali si sono ottenute date al C. 14 di circa 17.000 anni: le figure sono dunque anteriori a questa data. Si tratta in prevalenza di segni vulvari e di altri ideogrammi dello stesso tipo di quelli trovati in Francia nelle fasi aurignaziane e perigordiane.
In America, per ora, la data attendibile più antica che conosciamo è di circa 17.000 anni (C. 14), nello Stato di Piaui, in Brasile. Si riferisce allo strato archeologico di una grotta istoriata, nel quale si sono trovati frammenti di defoliazione della parete con resti di pittura (N. Guidon, L’Anthropologie, vol. 87/2, 1983, p. 257). Nella stessa zona si sarebbero trovati resti di gessetti di ocra, con segni di utilizzo, in strati ancora più antichi. E’ presumibile l’esistenza di opere più antiche sia in America del Nord, sia nel Sud America. Tuttavia recenti notizie su ritrovamenti riferibili ad epoche notevolmente più antiche vanno prese con molta cautela.
Si è tentato più volte d’ipotizzare la nascita di diverse sorgenti primarie di produzione artistica. Con il progredire della ricerca e l’aggiungersi di nuove scoperte, sembra invece di dovere tornare all’ipotesi, che era stata messa in disparte, di un’origine unica. Le date accertate finora disponibili sembrano indicarci un processo di diffusione dell’arte, ma come ciò sia avvenuto resta ancora da chiarire, pur prendendo sempre più piede l’ipotesi di una connessione tra la diffusione dell’arte e quella dell’Homo sapiens.
Precedenti episodi dell’evoluzione dei primati antropoidi hanno mostrato che l’Africa orientale ed australe ha avuto il ruolo di grande laboratorio di genetica in cui la natura faceva esperimenti; qui infatti si sono scoperti in gran numero resti fossili che ci mostrano l’evoluzione fisica della specie e qui probabilmente ha avuto il suo periodo formativo quel sapiens, nostro diretto antenato, responsabile tra l’altro della creatività artistica.
Riguardo ai primordi dell’Homo sapiens i ritrovamento disseminati nei vari continenti sembrano indicarci che questi ebbe una formidabile espansione dal suo luogo di origine in Africa. Nell’arco di poche migliaia di anni conquistò il mondo.
L’Homo sapiens si è portato appresso come bagaglio, tra l’altro, la capacità e l’esigenza di esprimersi con un linguaggio visuale. Forse esistono analogie tra le esigenze dell’uomo di esplorare il territorio e quella di esplorare dentro di sé, di farsi domande, e anche di proporre risposte ai quesiti dell’essere e dell’esistere.
Così, insieme alla sua diffusione fisica, si avrebbe una diffusione di questa nuova capacità dell’uomo. La distribuzione pare stranamente omogenea su tutta la Terra, tanto che si può dire che dove è arrivato l’Homo sapiens vi sono tracce della sua creatività artistica.
Le ultime ricerche ci mostrano che le varie espressioni artistiche delle fasi più antiche, nel mondo intero, illustrano una tipologia estremamente simile, la medesima scelta tematica, lo stesso tipo di associazioni ed anche lo stile, fondamentalmente, sembra avere una gamma limitata di varianti. Riteniamo perciò giustificato parlare di un unico linguaggio visuale, di una medesima logica di un simbolismo universale e di una stessa struttura di associazioni d’idee, che costituiscono l’essenza mentale stessa dell’Homo sapiens le cui impronte sono impresse sulle superfici rocciose di tutti i continenti.
4. Tipologia dell’arte
Un’analisi comparativa dell’arte preistorica a livello mondiale ha mostrato una sorprendente similitudine tra quanto si conosce nei cinque continenti. In base all’economia riflessa si distinguono quattro categorie di arte preistorica, che si riferiscono rispettivamente a : 1. Cacciatori arcaici; 2. Cacciatori evoluti; 3. Pastori e allevatori; 4. Popolazioni ad economia mista. In queste diverse categorie l’arte preistorica, a livello mondiale, nel corso di 40.000 anni presenta in tutto quattro tipi di pittogrammi: 1. antropomorfi; 2. zoomorfi; 3. topografici e tettiformi; 4. oggetti. Oltre ai pittogrammi, vi sono ideogrammi e psicogrammi. Questi ultimi sono presenti soprattutto nell’arte dei cacciatori arcaici e se ne conoscono ancora troppo pochi per stabilire una tipologia. Gli ideogrammi si dividono in tre tipi: 1. anatomici; 2. numerici; 3. concettuali. Questi tipi comprendono la quasi totalità dei grafemi che si trovano sia nell’arte rupestre, sia nell’arte mobiliare del mondo intero.
L’arte dei primordi ci mostra che le preoccupazioni erano focalizzate a quesiti specifici, che avevano carattere esistenziale e filosofico, atti a cercare soluzioni di grosse domande che l’uomo si poneva, sulla sua identità e sulle manifestazioni del mondo circostante. La relazione fondamentale era quella con il mondo animale dal quale traeva la sussistenza quotidiana.
I paesaggi sono molto rari, se non totalmente assenti, come lo sono le figure di vegetali ed i ritratti personalizzati. Per quanto ne sappiamo, i paesaggi sono pressoché inesistenti pressi i popoli cacciatori arcaici ed i cacciatori evoluti. Presso i popoli allevatori vi sono, anche se rari, dei paesaggi antropici, quasi sempre senza piante e senza orizzonte; se veramente si può parlare di paesaggi, questi sono composti da figurazioni di gruppi di capanne con scene aneddotiche di vita quotidiana o di culto, come appaiono nelle fasi pastorali di varie località saltariane, o dell’India centrale. Nelle incisioni rupestri di epoca pastorale nel Negev e nel Sinai, vi sono figure in pianta, di recinti per il bestiame e di grandi trappole per la caccia alla gazzelle; vi sono figure di recinti per il bestiame nelle incisioni rupestri di allevatori di bovini del Monte Bego, nelle Alpi marittime francesi.
Paesaggi con definizioni topografiche sono presenti in sporadici gruppi ad economia complessa. Troviamo un affresco, con la ‘pianta’ del villaggio e la montagna situata in prossimità di questo, nel sito neolitico di Çatal Hütük in Anatolia, e troviamo piante di villaggi, di abitazioni e di campi, nell’arte rupestre delle popolazioni ad economia complessa della Valcamonica.
Quanto alle figurazioni vegetali, piante, fiori, frutti, foglie, nella grande maggioranza dei complessi di arte preistorica sono totalmente assenti; quando il tema è presente, è indicato da alcuni caratteri specifici. Ad esempio in Tanzania abbiamo riscontrato una sequenza lunga millenni: tutte le figure vegetali che conosciamo sono concentrate in un’unica fase, che risale alla fine del Pleistocene o all’inizio dell’Olocene (tra 12.000 e 8.000 anni fa). Dai dati raccolti, tale manifestazione risulta rappresentare un orizzonte di raccoglitori, non di cacciatori, anche se ci troviamo nell’epoca che è definita dei ‘Cacciatori arcaici’. Si tratta di una popolazione la cui alimentazione era in larga prevalenza vegetariana e la cui dieta comprendeva ampio uso di stupefacenti (BCSP, vol. 23). Tali eccezioni, seppure rare, esistono e sono estremamente interessanti e significative.
In ciascuna delle quattro categorie menzionate, vi sono elementi che chiamiamo paradigmi. Sono modelli ricorrenti, elementi caratterizzanti che si ripetono nell’insieme della categoria in tutte le parti del mondo. Vi sono anche scelte preferenziali della superficie da decorare: grotte, ripari, superfici rocciose all’aria aperta. All’interno della grotta stessa o all’aria aperta, la preferenza può riferirsi a superfici orizzontali, oblique, verticali o al plafond o soffitto.
In ogni categoria pare sia stata fatta una scelta precisa della superficie sulla quale eseguire la pittura o l’incisione, che è così ripetitiva che in tutti i quattro casi sono identificabili le scelte caratteristiche preferenziali di forme e di colore delle superfici. Da un’analisi preliminare risulta che una percentuale altissima, fino all’85% delle pitture e delle incisioni, risponde a tali criteri. Ma vi sono sempre sia eccezioni sia regole, e le eccezioni richiedono delle spiegazioni. Sembra tuttavia che vi sia sempre un legame concettuale tra l’opera d’arte ed il supporto che è stato scelto per essa.
In un’alta percentuale dei casi sembra siano state fatte scelte ben precise delle tecniche di realizzazione, sia nella pittura, sia nell’incisione, sia nei graffiti a martellina, sia nei diversi metodi di levigatura. Vi sono elementi che si ripetono ma che, da quello che possiamo vedere, non sembrano sempre riflettere fattori di acculturazione o di diffusione. In alcuni casi il tipo di esecuzione pare semplicemente il risultato di un certo livello tecnologico o di un certo modo di pensare: sembra possibile dedurre che anche se le popolazioni non si comunicavano le loro tecniche, arrivavano a conclusioni simili anche in luoghi molto distanti e diversi tra di loro. Tale parallelismo di sviluppo non può dipendere sempre da influenze esterne.
Anche in epoche assai posteriori a quella dell’espansione primaria dell’Homo sapiens, dobbiamo ipotizzare la presenza di primordiali matrici comuni che hanno prodotto analoghe ‘risonanze’ anche a distanza di millenni. Lo studio di tali paradigmi è affascinante perché ci riporta a caratteristiche universali della nostra memoria sommersa.
La tematica, come si è detto, è molto ristretta ed è ripetitiva. Presso i cacciatori arcaici e i cacciatori evoluti, in Europa, in Asia, in Africa, in America e in Australia si ritrova la stessa gamma di figure. Le proporzioni relative dei quattro tipi di pittogrammi sono variabili, mentre a livello globale le associazioni sembrano seguire sintassi associative estremamente simili.
Nella mentalità di queste popolazioni vi sono aspetti dell’ambiente, dell’economia e della vita sociale che semplicemente non sembrano rientrare nelle preoccupazioni e negli interessi espressi dalla gamma figurativa. Gli artisti, sia tra i cacciatori, sia negli altri gruppi, hanno fatto scelte molto precise nella raffigurazione dei soggetti. I gruppi che riflettono società ed economia mista sono quelli dove più frequentemente si riscontrano tematiche di carattere regionale o locale che permettono di definire caratteristiche geograficamente circoscritte.
Oltre alla scelta della superficie, delle tecniche di realizzazione, della tematica e della tipologia, anche le dimensioni hanno una notevole importanza ai fini di riconoscere caratteristiche ricorrenti.
In certi orizzonti si riscontra la presenza di dimensioni preferenziali. Ad esempio, le grandi raffigurazioni di animali in grandezza naturale o che superano 1,5 o 2 metri di altezza o di lunghezza si trovano quasi esclusivamente presso popolazioni di cacciatori.
Presso i pastori si trovano solo in certi gruppi e sempre in zone oggi desertiche, specie in Arabia e nell’area sahariana, mentre nell’arte rupestre di popoli ad economia complessa tali figurazioni sono molto rare e in molte zone sono totalmente assenti. D’altra parte vi sono alcune fasi, negli orizzonti dei cacciatori arcaici e dei cacciatori evoluti, in cui si trovano figure animali di dimensioni modeste e perfino in miniatura.
A tal proposito si è notato un altro fenomeno curioso: nei gruppi in cui le figure animali sono di grandi dimensioni, le figure umane sono rarissime; in quelli dove le figure animali sono più piccole, la percentuale delle figure antropomorfe è nettamente superiore. Anche questo fenomeno ricorrente manca ancora di una spiegazione plausibile.
In tutti i complessi si trovano soggetti preferenziali e soggetti secondari. Si riscontra cioè una specie di scelta primaria che è fondamentale, all’interno della quale è stata operata un’ulteriore scelta. Accanto al tema dominante vi sono temi minori. Vi sono inoltre elementi ripetitivi, ideogrammi o altri grafemi, che compaiono come accompagnatori delle figurazioni dominanti. E’ una constatazione semplicistica affermare, come è stato detto da molti, che nell’arte paleolitica europea le figure animali costituiscono la raffigurazione dominante; allo stesso modo è anche molto approssimato affermare che nel mondo intero presso i cacciatori arcaici gli animali sono la raffigurazione dominante.
Contrariamente a quanto si è soliti pensare, però, raramente esistono figure animali isolate e sono quasi sempre accompagnate da ideogrammi che, sovente sono numericamente superiori alle figure animali e agli altri pittogrammi con i quali sono associati. Queste ultime, superano spesso gli ideogrammi nella dimensione. La figura animale isolata non era sufficiente ad esprimere ciò che si voleva esprimere, ed appare come la ‘parola’ principale, il soggetto, di frasi composte da pittogrammi ed ideogrammi.
In tutti i gruppi noti di opere di cacciatori arcaici, esistono costanti associative tra pittogrammi e ideogrammi, ossia tra temi figurativi e grafemi ripetitivi il cui segno non è immediatamente traducibile in immagine. Appare abbastanza ovvio che la comprensione dei messaggi che contengono dipenda dalla comprensione delle associazioni e che essa dipenda a sua volta dalla comprensione degli ideogrammi.
Come evidenziato da André Leroi-Gourhan, nelle grandi raffigurazioni del Paleolitico in Europa emergono in modo particolare due specie di animali, il bisonte e il cavallo, che spesso sono raffigurati l’uno di fronte o accanto all’altro e sono accompagnati da vari ideogrammi ricorrenti. All’interno del tema preferenziale, quello degli animali selvatici di grossa taglia, essi sono a loro volta preferenziali, si ripetono più frequentemente degli altri e sembra che significhino qualcosa di particolare nella dialettica delle associazioni. Si possono avere differenze tra una zona e l’altra, ma nell’insieme dell’arte parietale franco-cantabrica si riscontrano tali dati generali, dei quali più avanti si accennerà il possibile significato concettuale.
In Tanzania, nell’arte rupestre dei cacciatori arcaici, l’elefante e la giraffa giocano nelle associazioni un ruolo simile a quello svolto dal cavallo e dal bisonte in Europa. Infatti sono sovente associati e sono di gran lunga gli animali più rappresentati. E’ probabile che ricoprano, nella concettualità dei cacciatori arcaici di Tanzania, lo stesso ruolo che il cavallo e il bisonte ricoprono nella concettualità franco-cantabrica.
Abbiamo qui le premesse per un altro paradigma: la presenza, in vari contesti dei cacciatori arcaici, di specie animali predominanti con una relazione dialettica tra loro. Lo stesso modello si ripete in almeno due regioni, l’Europa occidentale e la Tanzania, tra le quali non sono ipotizzabili relazioni dirette all’epoca in cui il fenomeno si verifica. Per passare dalla semplice constatazione dei fatti alla scoperta del loro significato occorre che siano disponibili dati anche su tutto il rimanente contesto, in particolare sulle associazioni con gli ideogrammi, oltre ad una verifica sistematica dei possibili significati degli ideogrammi stessi.
Dunque si delineano dei paradigmi. E’ prevedibile che un’analisi dettagliata permetta di arrivare più lontano di quanto si possa attualmente immaginare. Soprattutto consideriamo molto promettente lo sviluppo di un’analisi sistematica che possa definire le associazioni, le composizioni e le scene, cioè i tipi di relazioni tra una figura e l’altra nel medesimo contesto, che costituiscono il riflesso visuale della dinamica concettuale delle associazioni. Il primo intento è quello di pervenire ad individuare modelli e costanti, ossia a stabilire i termini di una fenomenologia.
Vediamo ad esempio che presso i cacciatori evoluti la scena è comune, che sia scena di caccia, di attività quotidiane, di culto, di danza o altro; la loro tematica è limitata. Presso i cacciatori arcaici non sembra siano rappresentate vere scene descrittive di episodi, né nel Paleolitico Superiore europeo né in altri insiemi di arte rupestre (oppure, se ve ne sono, non si riesce per ora a comprenderle come tali).
Compaiono associazioni, composizioni, dal contenuto simbolico, ma non sono state ritrovate, salvo forse qualche rarissima eccezione, scene descrittive e narrative e questo potrebbe rivelare un elemento psicologico di primaria importanza.
Abbiamo tipi di associazioni che si assomigliano. Presso i cacciatori arcaici la collocazione spaziale di un animale nel contesto delle altre figure associate non riflette la realtà naturalistica come vorrebbe vederla la nostra immaginazione oggi; le figurazioni animali si ubicano nello spazio della parete in modo ripetitivo, in base ad impostazioni che dovevano certamente avere un senso nel loro insieme, ma che non riflettono il tipo di composizione, e il tipo di visione comune nella nostra cultura contemporanea. Sembra, ad esempio, che nell’arte dei cacciatori arcaici non fosse comune il concetto di ‘base’, o piano di calpestio. Salvo qualche rara eccezione, i grandi animali sono raffigurati sulle pareti delle grotte come se levitassero o fossero sospesi per aria. Lo stesso avviene in Europa come in Tanzania, in Australia e altrove. Ci si è sovente domandati se le figure rappresentassero gli animali stessi oppure i loro ‘spiriti’, oppure ancora se avessero più profondi significati che ci sfuggono.
L’associazione tra animali e ideogrammi si ripete con specifiche analogie presso tutti i popoli cacciatori arcaici. La figura animale si pone in qualità di soggetto, mentre gli ideogrammi, quelli che l’abate Henri Breuil e André Leroi-Gourhan chiamavano ‘simboli’, sono il ragionamento che si trova attorno ad esso. Presso i cacciatori evoluti abbiamo invece degli elementi di scena che mostrano una mentalità completamente differente; secondo il nostro modo di pensare, le associazioni dei cacciatori evoluti sono più narrative, veristiche, meno ‘astratte’.
Talvolta la transizione tra le due forme è piuttosto imprevedibile, e magari a un certo momento viene abbandonata la prassi consueta e comincia qualcosa di nuovo; talvolta invece, in altri contesti, pare vi sia un’evoluzione graduale e allora possiamo individuare le fasi di transizione. In tale processo s’intravedono mutamenti del meccanismo cognitivo.
Dall’analisi tematica emergono tipologie di figure, di segni, di grafemi che sono come il ‘vocabolario’ dell’arte e che appaiono come le parole di una frase. Ma segni isolati sono estremamente rari, come nel discorso sono rare le parole isolate. Nell’arte si hanno insiemi che riflettono i sistemi di associazione, che sono la sintassi. Sono le ‘frasi’ composte dall’aggruppamento o dalla sequenza dei grafemi. E qui si cela la chiave di lettura dell’arte preistorica, cioè di un’ideografia che rivela caratteri universali, o comunque una serie di associazioni costanti che superano o precedono i confini etnici e linguistici.
Sembra dunque possibile postulare la presenza di modelli archetipici di logica, ed è questa una ipotesi che offre avvincenti prospettive per penetrare alle radici dello spirito umano. Questa è essenzialmente la base per arrivare a decifrare i codici, non solo dell’arte preistorica ma anche attraverso questa, degli elementi fondamentali della dinamica cognitiva della nostra specie. Se si analizzano invece le figure isolate senza vederle nel contesto, senza vedere le associazioni, si ottiene soltanto un catalogo sragionato dove, separata dal resto, la figura perde buona parte del suo.
Il fatto è che questi elementi iconografici vengono poi sottoposti ad esegesi, con conseguenti interpretazioni che non si basano sugli insiemi, bensì su alcuni particolari, magari appariscenti, ma avulsi dal contesto e, conseguentemente, con interpretazioni che possono essere lacunose. Sarebbe come se nella nostra lingua insistessimo a leggere ogni parola separatamente, rifiutando di vedere che ci sono delle proposizioni, e che le parole, oltre ad avere un senso grammaticale, costituiscono insieme frasi e periodi secondo la logica della sintassi.
Si notano sovente anche associazioni composite ed accumulazioni cognitive che si sono formate nel tempo. Talvolta il processo appare di grande complessità. Sulla parete di una grotta si vede, ad esempio, che all’inizio c’erano solo tre figure, due animali l’uno di fronte all’altro ed un ideogramma accanto ad essi; dopo qualche generazione si è aggiunta un’altra figura, e dopo molto tempo, forse 2000 anni, si sono aggiunti ancora quattro segni. Il pannello ci offre il risultato finale dove tutte queste fasi appaiono come parte di un unico insieme.
Bisogna individuare l’associazione primaria, verificare gli elementi ripetitivi, confrontare poi le analogie ed i raffronti per valutare se si tratti di sovrapposizioni fortuite o intenzionali.
Vediamo in molti casi che alcune accumulazioni di segni hanno delle costanti e sono necessariamente intenzionali, anche se sono state eseguite in periodi differenti. Altre non lo sono oppure, semplicemente, non ne comprendiamo il senso. Dunque bisogna tener conto dell’accumulazione di segni e di figure su di una medesima superficie.
In molti casi, i grafemi eseguiti dall’uomo completano le forme e i colori naturali che esistevano già nel fondo. E’ presumibile che, per un processo cognitivo analogo, chi ha aggiunto segni sopra o accanto a quelli pre-esistenti, lo abbia fatto talvolta con finalità simili.
Scopriamo spesso che con queste figure si esprime un linguaggio vero e proprio, poiché vi sono degli elementi ripetitivi molto diffusi che dovevano essere leggibili in tutti i luoghi dove sono stati fatti. Al di là dei caratteri specifici locali in Tanzania, nelle grotte ornate paleolitiche della Francia e della Spagna, nell’arte dei cacciatori dell’Australia e della Patagonia, si scoprono le tracce di questo linguaggio che ha le sue radici nei prototipi.
Tra tali ideogrammi archetipici ve ne sono di molto semplici, alcuni dei quali diffusi universalmente, in tutte le epoche: il cerchio con il puntino centrale, la croce, il bastoncino, la linea e il punto, il segno a ‘V’, il dardo, il tettiforme, il triangolo, il quadrato, il segno fallico, il segno vulvare, le cinque dita di una mano, la serie di linee parallele, la serie di punti, la coppia di circoli. Già in questa categoria primaria vi sono abbastanza segni per un ‘alfabeto’. Molti segni sono gli stessi che, dopo essere stati usati per millenni come ideogrammi nell’arte rupestre, vengono a far parte delle prime scritture ideografiche, ma che furono poi ripresi anche come emblemi di concetti religiosi, filosofici o ideologici, in varie parti del mondo.
Si delineano dunque i principi di una nuova metodologia per gli studi comparativi e per un’ampia analisi contestuale dell’arte preistorica. E’ ora fondamentale trasporre le nostre frammentarie conoscenze in un sistema, e controllare fino a che punto questo sistema sia valido, verificando quali elementi ripetitivi abbiano un valore universale, e quali riflettano invece fattori contingenti o vernacolari che sono significativi solamente per la loro provincia.
Come già si è notato, gli elementi locali diventano sempre più frequenti quanto più le cose si complicano, soprattutto negli orizzonti ad economia diversificata o complessa. Presso l’arte dei popoli cacciatori prevalgono invece i paradigmi universali, naturalmente con delle varianti e con elementi che ancora bisogna comprendere. Nei periodi preistorici, in Europa non si trovano certamente figure di lama e in Argentina non sono presenti figure di cavalli, ma a livello universale l’oggetto animale è visto secondo un criterio generale e non considerato in quanto specie, poiché le specie animali variano da zona a zona.
Scopriamo quindi che esistono orizzonti culturali a livello mondiale. La riprova ne sono gli ideogrammi, che si ripetono pressoché identici nel mondo intero. Ad esempio, le impronte di mano, sia in negativo, sia in positivo, o gli stessi simboli vulvari, fallici, cruciformi, a bastone, arboriformi, che troviamo nell’arte paleolitica in Europa, li riscontriamo anche in Tanzania, così come in Australia e in America, in associazioni e contesti simili. Non è pensabile che tali fenomeni ricorrenti siano effetto di contatti diretti, ma possiamo ipotizzare che derivino da una matrice concettuale comune.
Ricapitolando, l’arte dei cacciatori arcaici ha un carattere che possiamo ben definire universale. Quella dei cacciatori evoluti ha già caratteristiche locali molto più frequenti anche se conserva numerosi paradigmi a diffusione mondiale. La vera Torre di Babele comincia quando termina l’età della caccia e della raccolta. Dopo questa svolta determinante, l’arte, come probabilmente altri aspetti della cultura, si fa sempre più provinciale, sempre più condizionata dal contingente. Diventano allora più comprensibili i gruppi d’arte rupestre vicini alla nostra cultura odierna, mentre sempre più esotici ci appaiono quelli di altre regioni del mondo. Però, a fondo, persistono innumerevoli comuni denominatori, primi e più evidenti fra tutti, il fatto stesso di produrre arte rupestre ed arte mobiliare, e quello delle analoghe tipologie, nelle scelte di soggetti e nei tipi di associazione.
A tali elementi di base, nati e sviluppati già all’epoca dei clan di cacciatori, si sovrappongono le mode, gli stili, gli abbellimenti, le caratteristiche delle varie tribù di epoche più recenti.
Il linguaggio visuale dell’arte preistorica può forse definirsi un linguaggio elementare. Così semplice che veniva usato già dalle bande di cacciatori alcune decine di migliaia di anni fa nel mondo intero. E’ demoralizzante il fatto che noi, con la nostra sofisticata concettualità del XX° secolo, non riusciamo a comprenderlo altrettanto chiaramente di quanto dovevano comprenderlo i nostri lontani antenati che lo praticavano quotidianamente.
Si può postulare che il linguaggio universale dei primordi è necessariamente lo stesso linguaggio universale che abbiamo ancor oggi in noi e che, una volta trovatane la chiave, possiamo riattivare coscientemente. Infatti, pur senza averne piena coscienza, lo usiamo costantemente: esso ha in sé le caratteristiche elementari della logica e del sistema di associazioni, che costituiscono fattori fondamentali dei meccanismi di intuizione, simbolizzazione, concettualità e ritualismo dell’Homo sapiens.
La riappropriazione cosciente di tale linguaggio ci permetterebbe di comprenderci senza più barriere linguistiche perché si basa su una logica primaria, precedente alle separazioni e alle specializzazioni glottologiche e, in teoria, dovrebbe essere contenuto in tutte le lingue e in tutte le lingue essere ugualmente comprensibile. Esso ci ricondurrebbe anche, con immediatezza, alla comprensione degli elementi fondamentali del pensiero, della logica, del funzionamento del meccanismo associativo di base, comune a tutti i popoli della Terra.
5. Riti e credenze
Le opere d’arte dei primi artisti ci aiutano a ricostruire le radici intellettuali della nostra specie e anche i resti di strutture ci dimostrano le esigenze di socializzazione dei nostri avi’sapienti’: loro tramite si riscoprono le abitazioni, i luoghi di riunione, le abitudini e le esigenze quotidiane.
I siti stessi, scelti dall’uomo, dove furono eseguite le opere d’arte, grotte, ripari o anfratti rocciosi, mostrano sovente una topografia concettuale nella quale il luogo dove sono le opere d’arte è separato dalle aree circostanti ma, allo stesso tempo, congiunto ad esse. Nelle grotte oscure come nei siti di arte rupestre all’aperto, l’accesso all’area istoriata ha una funzione di transizione e di passaggio tra due diversi ‘mondi’.
Ancora oggi, presso gruppi umani che producono arte rupestre, quali i Nyau del Malawi in Africa o gli aborigeni della Terra di Arnhem in Australia, l’area istoriata è considerata cerimoniale e l’accesso è riservato. Talvolta esso è accessibile solo agli iniziati: talaltra solo ad uno dei due sessi, o solo in determinate occasioni.
I siti di arte rupestre vengono sovente definiti come ‘santuari naturali’ a differenza dei santuari veri e propri (o artefatti) dove le forme e le strutture sono, almeno parzialmente, opera intenzionale dell’uomo. Questi ultimi, riferibili all’Homo sapiens fossile, quindi più antichi di 12.000 anni, per quanto ne sappiamo oggi, sono estremamente rari.
Il più antico ‘santuario’ che si conosca attualmente, è stato scoperto su una montagna nel deserto dei Negev israeliano, nel nord della penisola del Sinai e, in base agli utensili in selce, si fa risalire ad oltre 35.000 anni. Esso è ubicato ad Har Karkom, in una piccola valletta seminascosta sull’orlo di un precipizio, ed è noto con la sigla HK/86B; è circondato da diversi insediamenti della stessa epoca e si trova sulla montagna, davanti ad un panorama immenso che domina valli e colline fino alle catene montuose, a circa 60 km, ad est.
Har Karkom, che divenne un grande luogo di culto, importantissima montagna sacra nell’età del Bronzo, si trova lungo una delle principali piste che da tempi immemorabili hanno collegato l’Africa con l’Asia e con il resto del mondo (E. Anati, Har Karkom in the Light of New Discoveries, 1993). Esso comprende anche alcuni giacimenti di selce di qualità eccellente. La materia prima fondamentale del Paleolitico vi veniva estratta anche in epoche più antiche, ed è presumibile che fu proprio la ottima qualità della selce una delle principali ragioni ad attrarre l’uomo in questo luogo.
Ad est del santuario vi è il precipizio. All’estremità del santuario si vede il territorio di caccia, la grande radura sottostante; all’estremità opposta si vedono le due vette, che si ergono verso il cielo come due mammelle. Quando le si raggiungono, si scopre che una delle due vette ha, sulla cima, una grotticella; l’altra ha una forma naturale spiccatamente fallica.
Sembra che il paesaggio del sito prescelto racchiuda il principio maschile e femminile, oltre a quello della complementarietà tra Terra e Cielo, tra montagna e pianura, tra luogo di abitazione e territorio di caccia. Si ha l’impressione che il paesaggio stesso, con le sue forme e la sua topografia, abbia determinato l’ubicazione del santuario.
Una quarantina di grandi noduli in selce, alcuni dei quali sono alti più di un metro, provenienti da tre cave diverse in un raggio di circa 3 krn, hanno forme naturali reminiscenti del busto umano, in prevalenza femminile, e di animali. Arrivando sul luogo, molti hanno la strana impressione che da esso sprigioni una grande energia; i monoliti scuri concentrati in una valletta bianca sull’orlo del precipizio e il paesaggio lunare circostante creano una architettura ambientale che mozza il fiato.
Alcune di queste statue naturali pesano diversi quintali.
Un grande sforzo deve essere stato dedicato per trasportarle nel luogo. Sono state aggruppate nell’area centrale. Alcune sono state ritoccate dall’uomo. Su una superficie di circa 400 mq, oltre alle numerose selci lavorate, sono stati individuati circa 220 ciottoli in selce dalle forme naturali antropomorfe e zoomorfe, con ritocchi occasionali; variano in dimensione tra 35 cm e 5 cm e pesano fino a 20 kg. Vi sono anche geoglifi o allineamenti di ciottoli, che formano dei motivi sul suolo fossile.
Non si capisce bene la funzione di questo sito.
Non è un luogo abitativo; non sembra avere avuto ruoli economici. Era sicuramente un luogo d’incontro con la natura e probabilmente anche un luogo di meditazione sull’alchimia della natura. Tutto farebbe pensare che in qualche modo si cercasse di capire il significato delle forme della natura, da quelle dei ciottoli che vi sono stati raccolti, al vasto panorama che da qui si domina.
Questo santuario presenta tre principali caratteristiche. E’ un eccellente punto di osservazione dal quale si controlla l’area sottostante, che è territorio di caccia, come se si trattasse di un punto d’incontro della natura con le cime da un lato e le grandi pianure dall’altro; esso rivela un particolare interesse per le forme naturali delle pietre e testimonia che l’uomo vi ha raccolto e organizzato pietre dalle forme naturali antropomorfe e zoomorfe.
L’ associazione di queste due forme fondamentali nell’interesse dell’uomo del Paleolitico, antropomorfa e zoomorfa, sarà per i successivi 25.000 anni un elemento portante nell’arte e nella concettualità dell’Homo sapiens. Lo ritroveremo anche nelle figurine funerarie della Siberia, nell’arte parietale all’aperto e delle grotte-santuario, nell’arte mobiliare, nonché nell’arte rupestre dei cacciatori di tutti i continenti abitati, dell’uomo. Attorno al santuario vi sono diversi siti abitativi, con fondi di capanna ancora chiaramente visibili, con resti di focolari, con ateliers per il
taglio della selce e con innumerevoli strumenti litici.
Un altro santuario Paleolitico, posteriore di oltre 20.000 anni a quello di Har Karkom, è stato scoperto nella grotta di EI-Juyo, nell’area cantabrica della Spagna. I ricercatori L. Freeman e R. Klein (1983) descrivono quello che definiscono un tempio che risale a circa 14.000 anni or sono, vi hanno trovato una sala con un cumulo di pietre che chiamano ‘altare’, e una pietra dalle duplici parvenze: una faccia che da un lato è antropomorfa e dall’altra zoomorfa. Si ripete di nuovo questa associazione di uomo e bestia, elemento ricorrente nell’arte del Paleolitico dove oltre alle associazioni a cui si è accennato, sono presenti anche figure di esseri antropo-zoomorfi.
La sala era presumibilmente un luogo d’incontro in cui il cumulo con la pietra antropo-zoomorfa doveva ricoprire un ruolo particolare. La simbiosi uomo-animale rappresentava la formula sintattica consuetudinaria e forse evocava una storia vissuta, un mito di origine, un riferimento concettuale potente.
Come il santuario di Har Karkom, anche questo appare prevalentemente un luogo d’incontro o di riunione, con un’immagine fornita da una pietra dalla forma naturale, che fu raccolta dall’uomo e posta in evidenza. Nel caso specifico la pietra fu posta su di un cumulo, mentre ad Har Karkom gli ortostati, di dimensioni più grandi, erano stati infissi verticalmente.
Altri siti del Paleolitico sono stati interpretati come santuari, ma il loro frammentario stato di conservazione lascia dubbi riguardo a tale loro possibile identificazione. A Gonrsdorf, nella Valle del Reno in Germania, G. Bosinski (1970) ha scavato un paleosuolo nel quale erano state fatte delle buche in esse erano conservate placchette con incisioni di silhouettes femminili e di animali, in parte rotte, in un ordine che sembra indicare un comportamento rituale nei riguardi di queste immagini. Anche qui vi era stato un interplay, una commissione tra figure antropomorfe e figure zoomorfe. I simulacri, in questo caso, non erano esposti in permanenza, come nei due casi precedenti, ma erano stati sepolti nelle buche presumibilmente durante un rito.
In varie grotte, alcune con arte parietale, sono stati ritrovati livelli archeologici con placchette e figurine antropomorfe e zoomorfe, ma nessuna struttura costruita di notevoli dimensioni che si potesse mettere in relazione alle figurine stesse.
Cosa si faceva in questi santuari che appaiono come ricettacoli di manufatti artistici? La domanda si pone insistente ma resta per ora senza risposte concrete. Possiamo solo supporre, mediante la comparazione con analoghi santuari di popolazioni tribali recenti, che essi costituissero luoghi di iniziazione, di meditazione, di trasmissione delle tradizioni e della mitostoria. Le cerimonie, nei contesti etnologici, sono collegate a queste funzioni. In particolare, per quanto riguarda il santuario HK/86B di Har Karkom, possiamo affermare che molte energie sono state investite nell’installazione delle opere, monoliti, geoglifi, ciottoli, antropomorfi e zoomorfi. Quali erano le spinte e le motivazioni per tali comportamento?
Esisteva una programmazione o una premeditazione? Vi era un coordinamento, vi erano sacerdoti, esistevano eventi particolari in cui si svolgevano cerimonie? Sono tutte domande che per ora restano senza risposte che vadano oltre le ipotesi. Ma qualcosa possiamo dire. Ad Har Karkom e negli altri santuari, emergono insistenti alcuni principali ambiti di preoccupazione: l’esplorazione e la comprensione della natura, il significato delle forme naturali, le relazioni uomo-animale e le relazioni uomo-ambiente. Nella concezione religiosa e filosofica dell’uomo del Paleolitico superiore scopriamo quella che si può definire una visione dualistica dell’universo che, così come appare in questi santuari, si rivela anche in numerose altre manifestazioni della creatività artistica.
Alcuni aspetti di tale concettualità nell’arte paleolitica erano già emersi dalle analisi svolte da André Leroi-Gourhan e da Annette Laming Emperaire più di venticinque anni or sono (A. Laming Emperaire, Art rupestre Paléolithique, 1962; A. Leroi-Gourhan, Préhistorie Art Occidental, 1965). Si è parlato di attribuzione, da parte degli artisti paleolitici di valenze maschili e valenze femminili, ai vari animali, oggetti e simboli che rappresentavano. Di fatto, oggi sembra che i fenomeni osservati stiano ad indicare non tanto una determinazione sessuale, quanto una concettualità dualistica. 6. Simbolismo e intelletto
Nel mondo raffigurato dall’uomo sapiens fossile sembra che tutto l’esistente avesse la sua controparte, che ogni cosa fosse costituita di due metà che si completavano, nello stesso senso ancora oggi usato quando un coniuge parla della sua ‘metà’ riferendosi all’altro coniuge. La metà femminile aveva bisogno dell’altra metà maschile per funzionare biologicamente e per essere sé stessa e viceversa.
L’uomo e la donna, il mondo animale e il mondo umano, il cielo e la terra, la luce e le tenebre, il giorno e la notte, la grotta oscura e il mondo esteso tutto era diviso in due e la completezza era formata dall’accoppiamento dei due complementari. Ci si domanda come si sia sviluppata questa che possiamo definire, a giusto titolo, una vera e propria filosofia. Il problema è estremamente complesso e cercheremo di semplificarlo anche se ciò comporta il rischio di fornire spiegazioni parziali e necessariamente schematiche.
Molti dei ritrovamenti archeologici che oltre alle opere d’arte includono sepolture, luoghi di culto, resti di abitato e di bivacco e numerosi utensili di uso quotidiano, sembrano indicare che, da quando l’uomo ha sviluppato capacità di astrazione, di sintesi e di associazione complessa, le sue due preoccupazioni principali sono state la vita e la morte.
Una massima orientale dice che ‘La morte è il completamente della vita’. Senza vita non vi è morte e senza morte non vi è vita.
La morte di un proprio simile è un’esperienza traumatica anche per molti animali. La consapevolezza della propria mortalità è sopravvenuta più tardi, e ancora oggi è rifiutata da taluni. Il culto dei morti come si è visto, sembra sia stato un’invenzione dell’uomo di Neanderthal, artefice della cultura materiale musteriana, che ha vissuto tra circa centomila e trentacinquemila anni fa. E’ poi stato concepito in maniera molto più elaborata dall’Homo sapiens.
In Europa fin dall’inizio del Paleolitico superiore, circa 35.000 anni or sono, il culto dei morti è sovente stato, prima di tutto, un’esaltazione della vita. Dipingere (spalmare) il defunto con ocra rossa, dandogli il colore del sangue, o servirgli del cibo, sono atti che parlano di vita più che di morte. Si scopre che, nella concettualità primordiale dell’uomo, vita e morte erano viste come una coppia di complementari.
Emblematiche in tal senso sono le figurazioni vulvari (simboli di vita) sul corpo di figure di prede animali (ossia di animali che venivano uccisi e consumati come cibo) a Tito Bustillo ed in altre caverne dell’area franco-cantabrica (A. Beltran, BCSP, vol. 24, 1988). Emerge l’indivisibilità dualistica di vita e morte.
La sopravvivenza era assicurata principalmente attraverso la caccia, per cui si era instaurata una relazione esistenziale tra uomo ed animale. Per l’uomo la vita rispondeva ad un concetto assai simile a quello che oggi si ha dell’ ‘anima’ nella concettualità occidentale.
La vita animale nutriva la vita umana. Noi oggi siamo soddisfatti nel sapere quante proteine ingeriamo o, più semplicemente, nel sentirci ‘sazi’. Allora come oggi gli uomini, dopo aver mangiato, si sentivano soddisfatti. Ciò che per l’uomo di oggi è soddisfazione fisica, per i nostri antenati doveva essere la sensazione di aver acquisito la forza dell’animale del quale avevano consumato la carne. Il pasto era l’atto tramite il quale si realizzava la simbiosi degli spiriti, che costituiva la completezza, veniva a concretizzarsi con l’integrazione dello spirito dell’animale nel corpo dell’uomo.
Ancor oggi alcuni popoli cacciatori conservano simili credenze spesso definite impropriamente ‘animistiche ‘ (C.P Mountford, Art, Myth and Symbolism, 1956). I numerosi casi di raffigurazioni di antropomorfi mascherati da animali, o di esseri ibridi antropo-zoomorfi, nell’arte dei cacciatori arcaici, ci mostra in maniera drammatica questa ricerca di simbiosi.
Presso i popoli cacciatori si era sviluppata una relazione ambivalente tra uomo ed animale: l’animale cacciato era identificato con la sopravvivenza, l’animale vivo era emblema della vitalità. Riaffiora il concetto di relazione tra vita e morte. Tramite l’assimilazione fisica della carne dell’animale si acquisiva anche la sua forza, la sua vitalità e le sue capacità reali o immaginarie. I cacciatori si sentivano rivitalizzati, ben più che in senso corporeo, da questo loro atto consuetudínale di cibarsi, che aveva un senso che oggi definiremo ‘mistico’.
Il pasto era un atto di comunione che si praticava quotidianamente o quasi tra mondo animale e mondo dell’uomo o, più genericamente, tra il mondo umano e quello circostante, tra chi riceve e chi dà. In alcune religioni contemporanee tuttora rimangono residui di concetti assai simili, specie nei pasti rituali, reali o simbolici, che si consumano.
La caccia era pianificata e nazionalizzata, dovevano esservi regole molto precise in merito, forse non molto dissimili da quelle che conosciamo presso i Lapponi, gli Esquimesi, i Boscimani, i Sandawe, gli Hazda, gli Aranta ed altri popoli cacciatori dei cinque continenti. Alcune di tali regole, con varianti minori, sono tuttora diffuse a livello mondiale, presso queste popolazioni.
Il fine di tali regole è quello di non compromettere la continuità delle specie cacciate, che costituivano la riserva, la sicurezza, e quindi il patrimonio del territorio e del clan. Le femmine e gli esemplari giovani non venivano abbattuti. Si selezionavano gli animali che ormai avevano compiuto il loro ciclo vitale e la cui estinzione non turbava perciò l’ulteriore sviluppo del mondo animale. Si ha qui dunque un altro aspetto dell’atteggiamento ambivalente dell’uomo verso l’animale, in certi casi visto come preda da abbattere, in altri da non toccare, per mantenere l’equilibrio necessario a garantire che le risorse non si esaurissero.
L’applicazione del concetto dualistico nell’accostamento uomo-animale trova persistenze in visioni totemiche della natura ancora attuali presso popolazioni tribali odierne.
Altro elemento fondamentale della sopravvivenza era la relazione uomo-donna che assicurava il soddisfacimento delle esigenze biologiche naturali, oltre alla continuità della specie. L’atto di comunione sessuale aveva anch’esso un ruolo rivitalizzante e corroborante che contribuiva alla stabilità della struttura sociale, al senso di armonia e di conforto. Non sappiamo fino a che punto questi popoli avessero coscienza della paternità. Ancor oggi esistono tribù dove non ci si rende conto della relazione tra unione sessuale e gravidanza. Ma l’esigenza biologica di accoppiarsi non è certo una invenzione dell’uomo. L’associazione dualistica uomo-donna permane un fattore fondamentale della concettualità fino ad oggi.
Di fronte ad esempi così lampanti dell’accoppiamento di complementari come fattori di completezza e di unità, non è difficile comprendere come il concetto di dualismo o di bipolarità, si sia sviluppato estendendosi ad altri aspetti delle credenze e della visione dell’universo. Secondo tale concezione, ognuno dei due poli aveva bisogno dell’altro per realizzarsi, come se si trattasse di cariche elettriche di segno opposto le quali, facendo contatto, emettono scintille. Una concettualità assai simile persisteva ancora presso alcune popolazioni australiane quando Charles Mountford le studiò negli anni ’40.
Di fatto, l’arte paleolitica sembra riflettere questo dualismo in forme di sconcertante complessità. Vi sono rappresentanti animali che hanno valenza ‘maschile’, altri che hanno valenza ‘femminile’. Nelle grotte ornate della Francia e della Spagna vengono associate ad esempio figure di cavallo e di bisonte. Secondo l’interpretazione di A. Leroi-Gourhan, il cavallo davanti al bisonte sarebbe espressione di questo concetto di dualità. Per i clan di cacciatori della prateria o della savana, il cavallo agile, snello e veloce, sarebbe simbolo maschile, il bisonte pasciuto, lento e riflessivo, sarebbe simbolo femminile.
Come si è visto in Tanzania, ruoli analoghi con simili abbinamenti sono ricoperti dalla giraffa e dall’elefante.
Cambia la fauna, ma non cambiano i concetti.
Nel santuario paleolitico di Har Karkom è evidenziato, con forza dirompente, il valore dualistico del paesaggio, il simbolismo delle forme naturali e le relazioni dualistiche uomo-ambiente, uomo~animale e cielo-terra.
Nella visione cosmogonica che poi si è conservata in filosofie di epoche successive, la terra e il cielo erano considerati come una coppia, formata da due metà, l’una femminile e l’altra maschile. Lo stesso può dirsi forse per il mare e la terra, il sole e la luna. Molti elementi della concettualità paleolitica, sono non soltanto tuttora presenti presso alcuni popoli cacciatori contemporanei, ma sono ancora latenti nel nostro subcosciente, li riscopriamo quando riemergono.
E’ utile ricordare che il genere maschile o femminile attribuito ad alcuni elementi che la logica della nostra epoca considera neutri, si è trasmesso in alcune lingue moderne, come l’italiano e il francese, ed è forse un residuo della concezione ‘animistica’ secondo la quale venivano considerati.
E’ ipotizzabile che l’uomo cacciatore del Paleolitico si fosse creato un’immagine dell’universo influenzata dalla sua relazione funzionale con il mondo animale; la magnifica arte delle grotte-santuario esalta questi aspetti di concettualità e di spiritualità. L’incontro del bisonte con il cavallo nelle pitture parietali, come nell’ambiente della prateria, nascondeva i messaggi di una profonda realtà che simboleggiava l’universo.
Il sistema ripetitivo di pittogrammi, ideogrammi e psicogrammi, che l’uomo ha applicato nelle sue associazioni concettuali usa il dettaglio dandogli valore di simbolo per il generale, mentre trasforma il contingente in emblema per l’universale. Così, il cavallo ed il bisonte avevano significati ben più ampi del valore puramente figurativo che diamo loro. La loro associazione, nell’arte parietale, aggiungeva ulteriori significati all’insieme. Gli ideogrammi che li accompagnavano, contenevano ognuno, i suoi messaggi.
Tutte queste espressioni grafiche derivano dai dettagli assimilati dall’osservazione del loro mondo. Dalla realtà quotidiana l’uomo traeva un arricchimento del proprio intelletto: la lotta con animali enormi, mammut, bisonti, cavalli, tori, rinoceronti, da esso raffigurati, era esaltante.
La concezione cosmologica si associava ad una mitologia piena d’immaginazione e d’inventiva, che ha ispirato eccelse opere d’arte. Da queste, che costituiscono l’effetto, oggi l’archeologo cerca di risalire alle cause.
Affiora il problema della dialettica tra il reperto, il suo studio, e l’acquisizione del suo significato da parte della cultura.
Non basta che un reperto susciti un apprezzamento estetico per essere accentuato come parte della cultura. L’ uomo di oggi, come quello di ieri, esige dei contenuti. Posto di fronte a un messaggio, può recepirlo come può non recepirlo.
Ma se il messaggio non c’é, non vi é nulla da capire.
Una figura di bisonte o di mammut dipinta sulla parete di una grotta può sembrare bella o brutta. Ma solo scoprendone il significato, la figura diventa fatto di cultura.
Negli ultimi anni l’archeologia ha fatto grandi passi verso la comprensione dei contenuti ed é probabile che ci si trovi ad una svolta, che la ricerca ci porti verso la riscoperta di processi universali dell’intelletto umano.
La riscoperta dei significati fa meditare. La concezione dualistica dei popoli cacciatori di fatto é ancora nel nostro modo di pensare.
Fa parte della nostra ‘logica’ e, a migliaia di anni di distanza possiamo definire i principi della concettualità paleolitica come ‘ verità’.
E’ per noi ‘ovvio’ che la morte sia il completamento della vita, che l’uomo sia il completamento della donna e viceversa, e che la notte sia il completamento del giorno.
Non si pone il problema di credervi o non credervi perché riflette il nostro naturale modo di pensare. Ciò vale per il buddista come per il cristiano e continua ad essere un elemento universale della concettualità umana.
Quanto ci viene tramandato dal linguaggio visuale primordiale, é un mondo concettuale che riflette una determinata forma mentis.
In esso appaiono speculazioni intellettuali, credenze, miti e si scoprono consuetudini e riti che hanno marcato l’esistenza dell’uomo per molti millenni. Dal persistere delle stesse associazioni nel corso di centinaia di generazioni si può dedurre che vi fosse una fede assoluta e totale in questa visione cosmologica, fede che ha retto l’umanità da 40.000 fino a 10.000 anni fa circa. Per un periodo di 30.000 anni si é conservata una ideologia che si basava sull’esaltazione epica del dualismo, che trovava espressione nel confronto quotidiano tra uomo e animale, divenuto criterio di analogie per altri confronti: tra uomo e donna, tra giorno e notte, tra luce e tenebre, tra cielo e terra, tra vita e morte, tra realtà della veglia e realtà del sogno.
Tale mondo intellettuale-religioso sta tornando a livello cosciente tramite lo studio comparativo dell’arte e dei concetti analoghi che persistono presso popoli cacciatori ancora viventi in alcuni reconditi angoli della Terra. Esso ci rivela la magia meravigliosa dell’intelletto umano, che ha caratterizzato la specie fin dalle origini.
7. Conclusioni
Alla fine del Paleolitico, nelle regioni Euro-Asiatiche é intervenuto un fenomeno inatteso. Si é verificato un rapido cambiamento climatico. Non se ne conosce esattamente la causa, se pur vi sono diverse teorie in proposito. Ma il cataclisma ecologico, che mitologie varie hanno denominato ‘diluvio universale’, ha creato sconvolgimenti radicali.
Con lo scioglimento dei ghiacci, le grandi pianure sono state invase dall’acqua, milioni di tonnellate di ghiaccio che erano tra le montagne e nelle più ampie zone di calotta artica, si sono sciolti e hanno trasformato le pianure in laghi e paludi; il livello marino si é alzato di circa 120 metri, sommergendo immensi territori e probabilmente travolgendo migliaia di gruppi umani.
Tanto per dare un’idea, il Golfo Persico era un mare chiuso assai più piccolo delle sue attuali dimensioni. La salita di livello marino ha invaso le pianure dove i fiumi Tigri ed Eufrate proseguivano a Sud ancora per molti chilometri. La metà settentrionale del mare Adriatico, era una grande pianura, luogo di vita ideale per i clan di cacciatori e le loro prede. L’ arcipelago Maltese era un’appendice della Sicilia e la Sicilia era una penisola. Le coste del Mediterraneo, in certe zone, si sono ritirate di oltre 100 chilometri e il mare ha coperto le praterie. L’ Australia era collegata alla Nuova Guinea e lo stretto di Bering era transitabile.
Cambiamenti dell’ecosistema si sono verificati un po’ dovunque: gran parte del Canada, liberato dai ghiacci, é divenuto abitabile: il Sahara ha ricevuto abbondanti piogge ed é divenuto per alcuni millenni, una specie di paradiso dove popolazioni di cacciatori e raccoglitori hanno prodotto eccelse opere d’arte.
Nell’Europa temperata gli animali che vivevano in totale integrazione con il loro ambiente, erano dipendenti da una dieta animale e vegetale di tundra e basso bosco, costituivano una catena alimentare e si erano conformati al clima freddo e secco.
Quando, a seguito di questo cataclisma, é scomparsa la vegetazione di tipo tundra, alcuni animali, come il mammut, erano troppo adattati e integrati per modificare le proprie abitudini, e si sono estinti. Invece, altri, come il cervo ed il camoscio, hanno abbandonato le pianure, si sono facilmente adeguati all’ambiente montano e si sono conservati fino ad oggi.
I gruppi umani che non sono stati sterminati da questo ‘diluvio universale’ si sono trovati a dover cambiare dieta per la propria sopravvivenza, a doversi mettere a caccia dei piccoli animali, come le lepri, gli animali acquatici, le anitre selvatiche. Ciò ha causato moltissime modificazioni nella vita, nella struttura sociale, e nei concetti intellettuali. In primo luogo, quando ci si nutre di carne di mammut, é poco economico vivere in piccoli nuclei familiari: si caccia in gruppi consistenti, in grado anche di trasportare i quintali di carne al campo, e si consuma la carne in molti. Quando si vive di anitre o di lepri, il sistema di caccia si trasforma e muta l’economia e la dimensione del gruppo stesso. Ancor oggi l’uomo conserva associazioni di idee diverse, quando pensa al mammut (grande industria) e quando pensa ad un coniglio (club di playboy).
Anche presso i popoli cacciatori contemporanei vi sono modelli sociali e di comportamento diversi, tra cacciatori di grande fauna (o fauna di grossa taglia) e cacciatori di piccola fauna.
Quando è cambiata la fauna, a seguito delle modifiche climatiche, alla fine del Pleistocene, il gruppo umano si é adeguato. Gli scavi archeologici ci mostrano caratteristiche diverse degli abitati precedenti di età Paleolitica, e di quelli successivi, di età Mesolitica. Per quanto riguarda il Mesolitico in Europa si trovano di solito resti di insediamenti antropici in piccole grotticelle, con un piccolo focolare, con resti di molluschi e ossa di animali di piccola e media taglia.
L’ accampamento Paleolitico é invece sovente caratterizzato da resti di grossi focolari e da numerose ossa di grandi animali. Da una serie di osservazioni sui ritrovamenti si può dedurre che, alla fine del Paleolitico in Europa si verificò in alcuni casi una trasformazione della struttura sociale; il clan si scisse in nuclei familiari che si insediarono in zone distanziate l’una dall’altra; ognuno doveva avere il proprio territorio di caccia. Precedentemente un nutrito numero di adulti cacciavano grossi animali, la cui carne andava poi trasportata al campo e spartita.
Ma i cacciatori mesolitici non dovevano andare in trenta a cacciare trenta conigli nello stesso territorio: ogni nucleo si arrangiava per conto suo. Sembra infatti che proprio nel Mesolitico sia nata la particolare struttura familiare della nostra società europea. E con essa é nata anche una nuova concezione dell’aggregazione sociale. Un altro aspetto del trauma intervenuto a seguito del cambiamento climatico é di carattere ideologico. Quella verità assoluta sintetizzata nella concettualità dualistica, la fede in quella filosofia che aveva retto per 30.000 anni e che sembrava eterna e indistruttibile, venendo a mancare l’elemento essenziale, cioè l’epos della lotta dell’uomo con i grandi animali, d’improvviso non ha avuto più senso.
E così é crollata di colpo una fede che aveva persistito per un periodo quindici volte più lungo del tempo che ci separa dall’inizio della nostra era.
Le grotte santuario dell’area franco-cantabrica, con le loro meravigliose pitture, sono state abbandonate. Pur restando le stesse, pur mantenendo le proprie caratteristiche, non avevano più ragion d’essere. Non a caso le riscopriamo e riprendiamo ad apprezzarle oggi, nella nostra epoca, dopo oltre 10.000 anni di oblio. Ciò sembra indicare qualcosa anche nei riguardi della nostra epoca .
Per una causa esterna, di carattere ambientale, la religione universale si é sgonfiata di colpo e l’uomo si é trovato nel vuoto spirituale. Ha impiegato poi alcuni millenni per ricostruire una propria ideologia, attraversando nel Mesolitico un periodo di scadente espressione intellettuale. Sono rare e di carattere schematico anche le espressioni del linguaggio visuale, salvo in alcune zone dove l’uomo ha conservato una tradizione paleolitica decadente, cosiddetta epipaleolitica, presumibilmente con persistenze di una religione arcaica che non aveva più molto senso nel nuovo contesto.
In Valcamonica il periodo Protocamun,. con grandi figure di animali (le alci che si trovano a Luine), è un’espressione epipaleolitica, ossia un’espressione di tipo paleolitico attardato e decadente di un gruppo marginale che ha continuato quasi per forza d’inerzia, nel periodo Mesolitico, le tradizioni del Paleolitico, in modo disorganico, senza più la stessa dovizia di associazioni ideografiche e senza i profondi contenuti filosofici che avevano caratterizzato l’arte delle caverne (E. Anati, I Camuni, 1982).
Solo nel Vlll° e Vll° millennio a.C., a seguito di sviluppi tecnologici notevoli, con l’invenzione di nuovi strumenti, con le prime esperienze della lavorazione della terra e l’inizio dell’allevamento degli animali, l’uomo d’Europa e del Vicino Oriente è entrato in una nuova fase di ‘rinascimento’ che lo ha reso capace di creare anche una nuova ideologia e di dare avvio alla propria ricostruzione intellettuale.
Dal Neolitico in poi si può seguire passo per passo l’evoluzione concettuale del mondo europeo e mediorientale che ci ha portato ai nostri giorni. Le formule primarie sono state in gran parte sommerse da sovrapposizioni più complesse. Talvolta la capacità di sintesi non si è dimostrata adeguata a far fronte ai nuovi contenuti concettuali, ed è in tali periodi che si nota la tendenza a sviluppare il gusto dell’effimero. In altri continenti la storia è stata diversa. In felici zone del pianeta dove le condizioni di vita e le risorse naturali non hanno subito drastici cambiamenti, come in Australia, in buona parte dell’Africa e dell’America meridionale, non vi sono stati motivi per sostanziali mutamenti nel modo di vita. In altre zone ancora, come in vaste aree dell’Asia continentale, e del Medio Oriente, fiorenti praterie divennero deserti e da quelle l’uomo si ritirò per dirigersi altrove, lasciando i grandi spazi delle zone aride come rifugio per le popolazioni più deboli, per i gruppi emarginati, destinati a condurre un’esistenza di stenti.
Ma, stranamente, proprio in queste zone aride, abitate da popolazioni emarginate, troviamo le più grandiose concentrazioni di creatività artistica, immensi siti di arte rupestre con centinaia di migliaia di figure. Dodicimila anni fa tutta l’umanità viveva di caccia e di raccolta. L’economia e l’organizzazione sociale si è andata differenziando con la nascita e lo sviluppo di popolazioni pastorali, agricole e ad economia complessa. L’arte riflette queste vicende mostrandoci la varietà di forme e di concetti in costante crescita nei secoli.
Abbiamo, in queste vicende, una serie di dati che ci permette di meditare sull’anatomia dell’avventura umana. La storia non si ripete mai identica, ma il passato è dentro di noi, ed è con l’esperienza, le conquiste ed anche le ferite, che il nostro patrimonio concettuale si arricchisce. Le deduzioni che ne derivano fanno parte del nostro inalienabile retaggio.
(EMMANUEL ANATI)
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